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TOPOGRAFIA DELLA RESA

Ho iniziato questa serie di autoritratti (termine che amo poco, come quasi tutte le cose che incasellano un lavoro mentre avviene) nella solitudine di questa casa. Una casa nuova, grandissima e bellissima, regale, ma piena di difficolta. Una casa che si direbbe abbia una Tosse dentro le mura. Ci sono stati allagamenti, perdite di energia elettrica, e i mesi della pandemia senza caldaia, acqua fredda. Una casa che richiede un rapporto, una relazione a cui non ero preparata. Dico questo perché i luoghi hanno sempre determinato il mio lavoro. Ho iniziato nell’angolo buio di una casa a fotografare con una web cal, poi in sotterranei che chiamavo studio, poi nel bosco dove sono cresciuta in Abruzzo, chiese sconsacrate, case nobiliari dismesse e lucenti, luoghi che hanno determinato la strada del mio percorso. Posso dire che il luogo per me è una persona con cui abito uno spazio, non è solo lo spazio in cui mi muovo.

Ma dopo gli inizi con la fotografia questa è la prima volta che mi ritrovo ancora in una casa.

L’idea di labirinto ha sempre condotto i miei passi. La casa di Asterione è un racconto di Borges, con una versione del Minotauro che mi distrugge ad ogni frase, ho chiamato Asterione delle mostre, dei monologhi per teatro, lo studio che avevo:insomma posso dire che quel racconto di Borges illumina di volta in volta vicoli che sembrano ciechi e invece ci conducono a nuovi modi di vedere.

Io faccio parte di quelle persone che nella solitudine sentono tutto ossia il punto di isolamento corrisponde ad una ascultazione profonda. E cosi mi sono ritrovata al centro di una casa che era un’isola isolata in cui isolarsi ( ho una malattia autoimmune e quindi per me erano vietati completamente i contatti con l’esterno e infatti non sono mai uscita di casa).

Il peso delle morti mi sconvolgeva, sentivo l’epidemia infiltrarsi nei corpi.

Diciamo che ad un certo punto, io che sono stata sempre censiva e muscolare anche nel mio modo di lavorare, soprattutto con la fotografia, mi sono arresa. Mi spiego: ho sempre scattato come se l’immagine fosse l’apice di un gesto estremo. Non ho mai preparato il set, mai, perché il mio modo di formare l’immagine è di vederla comparire dove sono, non di prepararla o di realizzare fotograficamente qualcosa che già vedo prima. Mai usato telecomandi, o la presenza di altre persone che spezzerebbe quel ciclo di tensione di cui ho bisogna: premere il pulsante della macchina fotografica e correre dove sto per comparire. Quando il momento della presenza coincide con tutto, quella è l’immagine. O almeno cosi è sempre stata.

Ma stavolta è adata diversamente.

Stavolta l’immagine non è lo scatto ma un frame. Ho sempre lavorato col nudo. Non potrei preparare il mio corpo, aggiustarlo, modificarlo o agghindarlo perché l’espressione di qualcosa riesca meglio. Il corpo è il corpo. Un dato, quello che è. E’ il gesto estremo della vita è la parola alla fine del mondo. Io che ho sempre lavorato anche in scultura col il viso e con il petto come dovesse sempre aprirsi una voliera, stavolta mi sono trovata in una gabbia, la mia, quella toracica. I muri avevano una tosse, e io vivevo nella mia cassa toracica mentre il virus sfilava l’aria dai polmoni.

Ma la schiena non è solo una schiena, come ci insegna Kafka nella colonia penale. È anche un canovaccio in cui vengono scritte le cose da cui siamo determinati e che non possiamo leggere

( riferimento: nella Colonia Penale di Kafka dove c’è una macchina che scrive sulla schiena del condannato ignaro del motivo per cui è accusato, la ragione della sua colpa ma la scrittura che viene incisa sulla schiena viene anche arabescata cosi è impossibile leggere o repertare la sentenza).

Ho cosi costruito all’interno di questa casa una sorta di mappa, di topografia del corpo nudo che compare negli ambienti con il suo abbandono. Le immagini vengini filmate per un quarto d’ora. Poi viene preso un frame di quel tempo. Non più l’attimo dicevo, ma la meditazione del movimento nella sua immobilita. Questo rende anche la formulazione dell’immagine slegata dal tempo breve che invece si distende in un tempo lungo e meditativo ( Asterione dice Ho Anche Meditato Sulla Casa).

Quindi corpo nudo arreso, tempo lungo, non scatto ma un presente disteso in cui il corpo si arrende o medita l’immagine. Solo la schiena come l’isolamento delle proprietà del corpo. Io che mi occupo anche di scrittura, in questo periodo ho rinunciato a leggere e scrivere perché avevo bisogno di riformulare anche la geografia di un linguaggio.

Essere isolati per una persona che come me è abituata ad essere sola non la mancanza di contatto con gli altri, l’affetto.

E’ il non avere testimoni. E in arte i testimoni sono tutto.

Ma più importante di ogni cosa è ristabilire un contatto segreto con un tempo interno che non è detto debba esprimere tutto quello che ha da dire nel nostro presente.

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