CROSSING
ATTRAVERSARE UN ATTRAVERSAMENTO
Traversata del Floating Piers di Christo
Lago di Iseo, 30 giugno 2016
C’è una frase che ha sempre accompagnato il mio lavoro “Ogni opera d’arte è di una solitudine infinita”. La frase è di Rilke, lo stesso poeta che scrisse che l’amore è fatto di due solitudini che si custodiscono, si delimitano, si salutano.
Ed è con questo spirito che ho intrapreso questo “passaggio”.
Quando l’opera di Christo è comparsa mediatamente ne ero quasi delusa. Tanta filosofia e astuzia per vedere un carnaio di persone che si accalcava a qualunque ora del giorno e della notte per farsi una passeggiata tra selfie, panini e calzoncini corti, in giorni torridi che emanavano odore solo al pensiero. Cosa che mangiava ogni attrazione critica e detonava completamente l’idea che io ho di opera. Ossia l’esposizione di un punto di universo che si comunica tramite silenzio (e da quel silenzio riforma un linguaggio comune da cui l’opera può essere letta). Poi c’è stato un episodio: stavo guidando e appuntavo vocalmente col telefono alcuni pensieri circa i gesti di attraversamento di un corpo, quando mi arriva una mail con una foto dell’opera di Christo vista dall’alto. E’ stato come un shock addizionale che ha cambiato la valenza morfologica dell’estetica che assorbivo dall’immagine del progetto in generale. Si è aperto un livello di comprensione, forse, – non lo so – ma è arrivata un’idea performativa (termine che sopporto mal volentieri, ma lasciamolo). Per prima cosa l’arancione: colore potentissimo in tutte le simbologie, colore del legame, dell’affetto verso il mondo dei legami. L’ho visto per la prima volta vuoto il “The Floating Piers”. L’opera lasciata sola. Da lì mi ha parlato. Ho sempre lavorato con lenzuola (e con l’idea di errore, deposizione, perdono, pulitura) ossia con materiali che prevedono dei corpi distesi, che giacciono su e che per me sono, verticalmente, l’immagine più vicina alla preghiera, anche laica. Lo dico senza cultura. La prima sensazione che mi è arrivata è stata quella di camminare su quel ponte fluttuante in silenzio, con la mia gonna lunga fatta appunto di lenzuola. un movimento semplice e disarmante, camminare sola su un’opera solitaria. camminare con una gonna nera, lunga: 7 lenzuola nere, che mia madre ha cucito per me (il 7 vuole solo richiamare il 70 volte 7 ossia il numero infinito del perdono). Ho immaginato di attraversare il pontile come una specie di abluzione, ripulendo l’opera dai rumori che inevitabilmente assorbe. Dal chiasso. Dalle cose che si sopportano quando si rende disponibile un lavoro. Un piccolo e semplice rito di cura bonificante.
Certo io non sono nessuno per fare questa cosa. Sono solo una che dalla mattina alla sera lavora con questi significati e cerca di mettere in contatto la sua isola (anche per salvarla da uno sprofondamento) con la terraferma del mondo. Cerca un ponte, la formazione di un linguaggio per quel ponte. Un lavoro inutile, per lo più. Ma è la parte di di dialogo di cui sono titolare e cerco di assolverla come posso.
Così questa che ho intrapreso è una performance di attraversamento. E’ un’opera che cammina su un’altra opera, percorrendola, avendo fiducia di poterci davvero camminare su, galleggiando su un abisso. Insomma, un’opera attraversata da un’altra opera. Possiamo discutere mille anni su cosa sia un’opera e cosa no e ciò non cambierebbe la valenza di questo gesto, almeno per me. Un artista come Christo realizza delle vocazioni artistiche che sono visioni collettive. E in questo caso, mettendo in contatto territori come terraferma e isole, compie un gesto ancora più significativo e, soprattutto, comprensibile (fino al populismo), comprensibile anche dalle nostre psicologie a buon mercato come dalle nostre solitudini meno codificate.
Il gesto è quello di riuscire a camminare dove altri affonderebbero. E non fa questo l’arte? Cammina dove altri potrebbero annegare, e permette attraversamenti. Con un legame assurdo tiene molti più equilibri di quelli che disfa.
Ed è questo che ho desiderato: camminare sulla possibilità che l’arte rappresenta cercando di togliere rumore. Non per calpestarla nel senso dispregiativo della parola, ma per attraversare lo spazio della comunicazione pura che l’opera è. Nella performance ho il viso annerito e le mani sporche, perché per ripulire non siamo così ingenui da pensare che non ci si faccia carico anche di un petrolio pesantissimo di cui tutti siamo portatori con le nostre ambiguità e sperchi di senso.
Ho fatto questo col mio modo e col mio limite, che è un modo e un limite lirico, perché tengo al soggetto e alla persona nella sua solitudine come punto di universo che può cantare (e qui ancora Rilke quando dice che “canto è esistenza”)
La lunga gonna nera, che assorbe e pulisce sul ponte fluttuante arancione, ha la sua voce silenziosa, come una nota allagata su una piattaforma che la regge.
E’ anche un ringraziamento, perché con una voce, che non è solo la mia, ma una relazione che permette la voce, è come se potessi ringraziare le opere che mi hanno permesso negli anni di sentirmi espressa attraverso il lavoro di altri (che io non posso assolvere e che mi accompagna come colloquio con l’umanità), adempiuta nelle parti di me, anche minime, che faticavano a vivere, quelle sottovuoto che prendendo fiato mi hanno permesso di salvare la mia di isola, di non lasciarla affondare nell’inconsistenza della non espressione o nell’oscurità delle cose che ancora non riesco a realizzare e che mi minacciano con la loro potenza vitale.
Infondo queste due opere di attraversamento si somigliano nel loro intimo.
Sono due solitudini che si custodiscono, si delimitano e si salutano.
Non penso di avere un compito migliore oggi se non questo lavoro di incontro da cui si generano linguaggi. E questo mano mano mi aiuta a capire cos’è l’amore.
Tiziana Cera Rosco